Giulio Zoppello Giornalista 31 agosto 2024 13:34
Gianni Amelio a Venezia 2024 dona “Campo di Battaglia”, la sua ultima fatica, un racconto della memoria storica che ci porta dentro la tragedia di quegli ospedali militari della Grande Guerra, dove il fanatismo e la mancanza di empatiaassumevano nuovi e orrendi risvolti. Puntigliosissimo nella ricostruzione storica, ben diretto e interpretato, il film pecca però nella seconda parte per ciò che riguarda coerenza interna e intensità. Rimane ad ogni modo un film da vedere, non fosse altro per ricordare un oscuro capitolo di quel periodo.
"Campo di Battaglia" - la trama
Gianni Amelio con "Campo di Battaglia" ci porta in quel fatidico 1918, quando la Grande Guerra era ad una svolta decisiva, con le truppe italiane in procinto di scagliare l'offensiva che avrebbe piegato gli Imperi Centrali. Ma naturalmente per i soldati non cessa la macelleria e migliaia di questi vengono ricoverati negli ospedali, compreso quello in cui prestano servizio due ufficiali del reparto sanità: Stefano (Gabriel Montesi) e Giulio (Alessandro Borghi), che sono amici fin dalla gioventù. Stefano è carismatico, puntiglioso, ma soprattutto è uno di quegli ufficiali che crede nello sforzo bellico, nella vittoria e per questo odia i tanti che, traumatizzati oltre ogni limite, simulano ferite da combattimento, per non tornare in prima linea. Giulio al contrario vorrebbe fare il ricercatore, è mite e sensibile, e decide di non essere complice degli Stati Maggiori, che sono disposti a mandare infermi di nuovo in prima liena o autolesionisti davanti al plotone d'esecuzione. Da quel momento, fa peggiorare quanto basta diversi ricoverati per non mandarli in prima linea ma rischia moltissimo, soprattutto perché Anna (Federica Rosellini), infermiera amica di entrambi dai tempi dell'Università, non sa bene cosa pensare di tutto questo.
Tratto da un romanzo storico di Carlo Patriarca, "Campo di Battaglia" è l'ennesima sfida alle nostre convenzioni cinematografiche di Gianni Amelio, che dopo "Il Signore delle Formiche" portato a Venezia 2022, ci guida dentro una realtà a lungo taciuta della nostra storiografia ufficiale, sul trattamento disumano e impietoso inflitto ai nostri feriti, quando c'era da rimpolpare le truppe per l'ultimo anno di guerra. Partiamo col dire che la rievocazione storica è semplicemente magnifica e non riguarda solo scenografie (Beatrice Scarpato), costumi (Luca Costigliolo) o la fotografia diLuan Amelio Ujkaj che eleva il tutto.Montesi e Borghi, entrambi romani, padroneggino un italiano connesso al dialetto veneto con incredibile efficacia. La loro prova è di assoluto livello, sanno come fare di questi due amici, i due lati opposti dell'animo umano: da una parte l'ambizione, il militarismo, la disciplina cieca e priva di ogni pietà, dall'altro invece chi mette gli altri al primo posto, chi non si dimentica mai di essere un medico prima che un soldato, qualcosa di assolutamente inaccettabile secondo lo spirito dell'Italia dell'epoca, in particolare quello portato in palmo di mano dagli Stati Maggiori. Tuttavia "Campo di Battaglia" non è il film perfetto che potrebbe essere.
Un grandefilm antimilitarista che però si ferma sul più bello
Il problema principale riguarda la capacità di portarci dalla prima parte, essenzialmente descrittiva e ben fatta su quel piccolo microcosmo rappresentativo dell'Italia dell'epoca, alla seconda, in cui subentra il dramma della Febbra Spagnola ed infine il destino di Stefano e Giulio diventa metafora del paese che di lì a poco abbraccerà le prime spinte totalitariste. Gianni Amelio ha mano delicata e sensibile, però la sceneggiatura scritta conAlberto Taraglio non risulta abbastanza strutturata per reggere la trasformazione, così come nel donarci qualcosa che non sia un viaggio nel tempo dell'Italia a poca distanza da Vittorio Veneto. Il personaggio della Rossellini appare poco sviluppato, in certi momenti la sua relazione di amore-odio con i due rimane su un livello così embrionale, che viene quasi da pensare sia superflua. La chimica tra Montesi e Borghi però salva il film quasi sempre dai cali di ritmo e di intensità dell'ultima parte, dove "Campo di Battaglia" abbandona forse troppo il suo iniziale naturalismo, per abbracciare una sorta di simbolismo metaforico che però appensantisce il tutto. Peccato, perché fino a quel momento il film di Gianni Amelio aveva meritato il suo posto tra i grandi film italiani su quel periodo storico che hanno reso grande il nostro cinema, non fosse altro per come sa raccogliere l'eredità antimilitarista di registi come Stanley Kubrick, Francesco Rosi o Peter Weir.
Certo, Amelio ci mostra la cultura sado-maso-mortuaria di quell'esercito che insegue la vittoria come un ubriaco la bottiglia, e il ricordarci quanto la medicina abbia saputo essere un passo in avanti decisivo anche nei momenti più bui è importante. Il film offre alcuni dialoghi illuminanti, momenti di straziante bellezza, ma alla fine è come se si adagiasse sugli allori, invece di mantenere alta la tensione, senza valorizzare appieno le sue potenzialità. Pur nella sua essenza di cinema civile, di riscoperta del concetto di resistenza, "Campo di Battaglia" manca la prova definitiva a livello di struttura narrativa, di climax in particolare, con un finale che è tanto prevedibile quanto un vicolo cieco. Tuttavia questo giudizio non basta a spostare la bilancia verso un voto negativo. "Campo di Battaglia" non è al livello per esempio del "Padre Pio" di Abel Ferrara, ma è un film che saprà far arrivare al pubblico generalista la verità storica, il percorso di una presa di coscienza che dai protagonisti, si riversa sullo spettatore. Il filmcancella ogni retorica e ogni trionfalismo sul Piave che mormorava, ci ricorda quanto essere affetti da PTSD fosse un crimine edil tragico destino dei mutilati, la realtà di una nazione in cui non esisteva ancora una vera identità univoca, i dialetti dividevano come e quanto l'essere parte di differenti classi sociali. Difficile prevedere se "Campo di Battaglia" possa puntare ad un qualche riconoscimento, ma la speranza è che Gianni Amelio possa ispirare altri registi a raccogliere il testimone, a parlarci del nostro passato in forma nuova e meno scontata.
